di Mauro Valeri
Una ventina di
giorni fa, proprio da questo blog, avevamo preso una precisa presa di posizione
contro alcune norme che la FIDAL (Federazione Italiana di Atletica Leggera)
aveva adottato per il 2012, che conteneva misure a nostro parere
discriminatorie nei confronti di migliaia di atleti stranieri, che in genere sono
lavoratori che corrono la domenica per passione in competizioni regionali. Per
le nuove norme, invece, a differenza dei loro colleghi italiani, non potevano
né correre fuori dalla regione in cui erano tesserati, né accedere al
montepremi. La motivazione implicita era che a vincere erano in genere
corridori d’origine africana.
Certo, tutti noi
sappiamo che anche nell’atletica leggera c’è una sorta di “tratta” che riguarda
corridori africani o dell’Europa dell’est, che vengono “importati” in Italia
per pochi mesi e spremuti come limoni, obbligandoli a correre “a cottimo”: su
ogni vittoria a loro và un tot (che spesso è quasi niente), mentre la gran
parte dei soldi finisce nelle tasche dei “procuratori”.
Denunce di questo
tipo risalgono almeno alla fine degli anni ottanta. Addirittura, non molti anni
fa, una ragazza africana “importata” per correre e vincere, era finita in un
CPT perché il suo “procuratore” le aveva trattenuto il passaporto per evitare
che fuggisse via con i soldi che si era guadagnata correndo. La “tratta” però
va combattuta con misure specifiche, anche abbastanza semplici, e non con
misure che finiscono per penalizzare migliaia di altri stranieri, che fanno
sport perché gli piace e anche per guadagnare qualcosa (si parla di qualche
centinaio di euro guadagnati a corsa).
Invece in Italia,
la “tratta” sportiva viene quasi sempre strumentalizzata per impedire l’accesso
allo sport agli stranieri, chiunque essi siano. Così è nel calcio, ad esempio.
Negli ultimi tempi, poi c’è stata una sorta di giustificazione nazionalistica
di questa chiusura incondizionata verso lo sportivo straniero, in nome di una
tutela dei nostri vivai, si dice. E la stessa La Gazzetta dello Sport aveva
salutato queste nuove norme nell’atletica come giuste e innovative! Convinti
che la cultura sportiva sia ben altra cosa, avevamo sostenuto che quelle norme
erano di natura discriminatoria. Ebbene, venerdì 27 gennaio la FIDAL ha rivisto
la sua posizione permettendo agli stranieri sia di partecipare al di fuori
della propria regione, sia di riscuotere i premi vinti.
Non sappiamo se
qualcuno della FIDAL legga questo blog, ma certo la tempistica ci fa ben
sperare. E’ un ripensamento che ridà allo sport quel ruolo che dovrebbe avere:
favorire le pari opportunità e poi che vinca il migliore. L’impressione è che
vi siano alcune federazione sportive decisamente più “cosmopolite” – come ad
esempio quella del basket, della pallavolo o anche del badminton – e quelle più
“nazionaliste” – prima fra tutti la FIGC, ma anche quella della pallanuoto non
scherza, visto che quest’ultima ha recentemente messo un limite anche ai
giocatori comunitari. Con i primi il dialogo non solo è possibile ma andrebbe
rafforzato; con i secondi sembra che solo l’intervento del giudice possa
produrre qualche segno di maggiore apertura.
Con Londra 2012
alle porte, un vero dibattito sul valore dello sport potrebbe permettere di
rilanciare anche un dibattito sulle norme discriminatorie praticate dalle
federazioni sportive. Certo, è una battaglia improba. Basta pensare che, in
forza di una legge del 1942, fino al 1999 (!), il testo legislativo con il
quale veniva regolamentata l’attività del Comitato Olimpionico Nazionale
Italiano recitava: “Compiti del CONI sono l’organizzazione e il
potenziamento dello sport nazionale e l’indirizzo di esso verso il
perfezionamento atletico, con particolare riguardo al perfezionamento fisico e
morale della razza”!
Tratto da: Sport alla rovescia
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