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venerdì 25 febbraio 2011

La partita più difficile. I giocatori della ProPatria occupano lo stadio.

Come  in una fabbrica occupata con gli operai a difesa del posto di lavoro; la vertenza questa volta però si svolge in uno stadio e ha come protagonisti dei calciatori. Sono i giocatori della Pro Patria, squadra al secondo posto nel campionato di seconda divisione (la ex C2),che, dopo l’allenamento , hanno occupato lo stadio«Speroni», decisi a restare fino a quando qualcuno non darà loro uno stipendio e certezze per il futuro.
L’allenatore Raffaele Novelli guida il gruppo in campo e nella protesta. Ha già denunciato l’amministratore unico per appropriazione indebita, e si preoccupa di trovare da dormire a ragazzi ; “ infatti per alcuni di loro è un’occupazione simbolica – racconta -, mentre per altri si tratta davvero di trovare un posto dove andare a dormire”. Ci sono sei giocatori sfrattati da casa e otto lo saranno tra qualche giorno. Per i giocatori è sempre più dura; il mediano, un  brasiliano, è stato sfrattato e ora dorme nella casa  di un giornalista locale che segue e sostiene la squadra. Negli spogliatoi hanno posizionato una decina di brandine, con materassi, cuscini e coperte per la notte.
La società che dovrebbe pagare gli stipendi si è dileguata, e il Comune, proprietario dell’impianto, non riesce più a trovare una soluzione. Così gli atleti hanno deciso di fare tutto da soli. Prima di iniziare l’occupazione, i calciatori hanno preso in giro per lo stadio cartelli e striscioni con la scritta in  «in vendita».
Le partite, soprattutto le trasferte,  si giocano solo grazie alle collette spontanee di tifosi e non manca il sostegno della città. Le bende e le garze e il materiale tecnico  sono state portate dai club organizzati. Le maglie sono state lavate grazie a tre bidoni di detersivo regalati dalla lavanderia del quartiere.  Ma la cosa peggiore è la trasferta: per i soldi che vanno recuperati ogni volta,  per gli insulti dei tifosi avversari. Ai soliti  sputi e insulti ora si aggiungono il lancio in campo di  monetine al grido di  falliti e morti di fame.
Non ostante i risultati del campo, la squadra è seconda, e forse grazie anche a questo i giocatori hanno deciso di dare un senale a tutto il pianta calcio seguendo l’esempio di tanti che nel mondo stanno lottando per i propri diritti e contro la crisi.

domenica 20 febbraio 2011

Storie di ordinario masochismo della FIGC

Enis Nadarevic è nato a Bihac, in Bosnia Erzegovina, nel 1987. Come tanti ragazzini, si appassiona al calcio. Poi, nel 2005, si ricongiunge con i genitori in Italia. Per vivere fa il manovale nella ditta del padre, scappato dalla guerra nei Balcani nel 2002. Ma continua a coltivare la sua passione calcistica in campetti della provincia, riuscendo a mettersi in mostra per quella sua felice propensione al gol. Nella stagione 2009/10, con la Sanvitese – la squadra di San Vito al Tagliamento in provincia di Pordenone, che milita nel campionato di serie D (cioè tra i Dilettanti) – realizza ben 30 gol che gli permettono di vincere la classifica da capocannoniere.
A questo punto, arriva la richiesta del Varese, squadra neopromossa in serie B (cioè tra i Professionisti), che lo vorrebbe tra le sue fila. Ma c’è un ostacolo non da poco. Stando alle norme della FIGC, nessuno straniero extracomunitario può giocare nel campionato cadetto, se non per casi del tutto eccezionali. Così il trasferimento viene bloccato. Enis non ci sta e, ritenendosi discriminato in base a quanto previsto dagli articoli 43 e 44 del d.lgs 25 luglio 1998, n.286 (la famosa legge “Turco-Napolitano”), si rivolge ad un pool di avvocati e denuncia la FIGC, la quale risponde, come suo solito, impostando la difesa soprattutto su due linee argomenti: quanto accade nello sport deve essere sottoposto solo alla giustizia sportiva; le limitazioni nei confronti dei calciatori degli stranieri, sono motivate dalla necessità di “tutelare i vivai nazionali”. Già in passato questa linea difensiva si era mostrata assai debole.
Non soltanto la giustizia ordinaria può (e anzi deve) occuparsi anche di questioni del mondo sportivo, specie se c’è di mezzo una presunta discriminazione nei confronti di uno straniero, ma lo sbandieramento della “tutela dei vivai nazionali” per osteggiare il tesseramento di calciatori stranieri non ha alcun senso, soprattutto perché le delibere del CONI hanno chiarito ormai da diversi anni che la tutela dei vivai sportivi non vuol dire tutelare gli atleti italiani, ma tutti coloro che sono cresciuti sportivamente nei vivai calcistici italiani a prescindere dalla loro nazionalità (e questo è anche il caso di Enis). Tutelare i vivai vuol dire quindi tutelare tutti coloro che si formano nei vivai, a prescindere dalla cittadinanza. Pensare che invece voglia dire “tutelare i calciatori italiani” è un ragionamento discriminatorio, che troppo spesso si traduce in pratica discriminatoria. Il paradosso sta semmai nel riuscire a conciliare la norma che “tutela dei vivai” con le restrizioni previste per il tesseramento e nella concreta possibilità di schierare in campo calciatori “extracomunitari”, senza cadere nella discriminazione.
Di certo, nel caso di Enis la discriminazione sussiste. Così il 2 dicembre 2010, il Tribunale di Varese (sezione prima civile) emette la sua ordinanza, con la quale: “accerta e dichiara che la FIGC ha tenuto un comportamento discriminatorio (…) rifiutando di ammettere Enis al tesseramento per la stagione calcistica 2010/2011, e ordina alla FIGC di cessare immediatamente il comportamento con effetti discriminatori”. Qualche settimana dopo, Enis fa il suo esordito con la maglia de Varese.
Da questa vicenda, come da quella di Mehdì Kabine o di Rachid Arma, si ricava però anche un’amara constatazione. L’unica possibilità per convincere la FIGC a rivedere in maniera più realistica e meno discriminatoria tutta la normativa sul tesseramento (soprattutto il primo tesseramento) sembra essere “per via giudiziaria”. Nonostante le molte promesse, infatti, non sembra che ci sia la volontà da parte delle “gerarchie calcistiche” di prendere atto del cambiamento avvenuto nella nostra società, che è una società sempre più multietnica. Lo hanno fatto importanti federazioni, come quella di basket, di pallavolo, di atletica o di pugilato. La FIGC no.
A quando la prossima sentenza?

giovedì 10 febbraio 2011

La nazionale multietnica e le ragioni di Oliver Bierhoff

Dopo la disfatta calcistica della Nazionale ai Mondiali in Sudafrica, gli alti dirigenti della FIGC avevano dichiarato di voler porre riparo alla crisi conclamata del calcio italiano, rinnovando significativamente la Nazionale e, di conseguenza, anche i vivai. La panchina affidata a Prandelli è sembrata a molti un ottimo segnale. Anch’io ho salutato con favore questa nuova fase, soprattutto perché mi sembrava che, tra le varie novità, vi fosse la volontà di avvicinare
la realtà calcistica, rappresentata dalla Nazionale, alla realtà quotidiana, soprattutto per ciò che riguarda la sua componente “multietnica”.
In tale prospettiva, la convocazione di un giovane di seconda generazione, e peraltro anche nero, come Balotelli, e di un “nuovo italiano” come Ledesma è stata una positiva novità, ovviamente malvista e osteggiata dai razzisti (Klagenfurt docet). Tuttavia, per essere realmente la “rivoluzione” che il calcio italiano dovrebbe avere il coraggio di avviare, anche per ottenere migliori risultati sul campo, è indispensabile che all’apertura verso i cosiddetti “oriundi” o calciatori divenuti italiani per matrimonio o altro, coincida anche – e soprattutto – un’apertura verso i figli dei migranti, che ancora oggi trovano invece nella burocrazia a forte componente discriminatoria un ostacolo spesso insormontabile per avviare una carriera calcistica da professionista.
La recente convocazione in azzurro di Thiago Motta – italiano per via del nonno emigrato in Brasile da Polesella, provincia di Rovigo – ci permette di fare il punto su questa “rivoluzione” a guida Prandelli. Ed è un punto purtroppo non positivo. Nel senso che in questi mesi di “nuova gestione” della Nazionale non vi è stato alcun segno di una maggiore apertura al tesseramento dei figli dei migranti che (checché ne dica Pancalli), qualora tesserati, fanno pienamente parte dei vivai nazionali. Anzi. Sembra ormai assunto che in Italia l’unica possibilità per modificare un sistema arrugginito e discriminatorio, qual è quello del tesseramento dei figli dei migranti, è il ricorso alla via giudiziaria (come dimostra il recente caso Enis Nadarevic, nel quale la FIGC è stata portata ancora una volta in Tribunale, e ancora una volta è stata condannata per discriminazione razziale!). Ovviamente non è colpa di Prandelli, ma del “Sistema FIGC”.
Ma se la situazione rimane questa, e cioè se nei prossimi mesi si assisterà soltanto a esordi di altri “oriundi” o “nuovi italiani” a fronte di una chiusura nei confronti dei figli dei migranti, allora ha realmente ragione Bierhoff. Perché è vero che l’integrazione in Germania è diversa da quella che si ha in Italia, per il semplice motivo che, dopo tanta resistenza, da alcuni anni la Germania ha scelto di basare la concessione della cittadinanza alla nascita, non soltanto a chi ha almeno un genitore tedesco, ma anche a chiunque nasca sul suolo tedesco. E’ grazie a questa vera rivoluzione extracalcistica che si sono affermati calciatori come Ozil, o come Khedira (ai Mondiali in Sudafrica, ben 11 del 23 calciatori della Nazionale tedesca erano d’origine straniera).
Ciò non vuol dire che Ledesma e Thiago Motta non siano “degni” di giocare in Nazionale, perché, a differenza di quanto sostengono i nazionalrazzisti, è giusto che in Nazionale giochi chiunque abbia la cittadinanza italiana, a prescindere da come l’abbia acquisita (altrimenti si farebbe una pericolosa distinzione tra italiani “veri” e italiani di “serie B”).
Ma è evidente che fino a quando l’unica porta aperta è quella riservata agli oriundi, non sarà mai la “mia” Nazionale.

mercoledì 2 febbraio 2011

Matthias Sindelar, l’attaccante che disse no al Nazismo.

Matthias Sindelar, artista del gol di origine ebraica, nasce nella Moravia austriaca, oggi Repubblica Ceka, il 10 febbraio 1903. Incomincia a giocare a calcio con l’HerthaVienna, poi passa all’Fk AustriaVienna. Grazie ai suoi gol (siamo nel ’27) la squadra vince la Mitropa Cup, la Champions dei giorni nostri.
Con Sindelar nasce il Wunderteam, la nazionale austriaca dei primi anni trenta, una squadra che ha seganto un epoca;dal 1931 al 1933 16 partite 12 vittorie 2 pareggi 2 sconfitte 63 gol fatti e venti subiti. Una nazionale che arriverà, non senza polemiche e pressioni, quarta al mondiali del 1934 in Italia.A San Siro, l’Italia, in semifinale con l’Austria scopre il calcio e un attaccante superbo. E’ una partita memorabile che esalta le doti di portiere azzurro Combi e la prontezza di Guaita che al 19′ del primo tempo realizza il gol-partita. Quello che lancia l’Italia verso il primo titolo iridato e che consacra Sindelar.
Il Mozart del calcio come lo chiamava l’allenatore Hugo Meisl, non gioca la finale per il terzo posto e un’Austria in grandi ristrettezze economiche e condizionata dale pressioni politiche perde con la Germania 3-2.
In campo Sindelar
 c’è, invece, nel famoso 8-2 sull’Ungheria, qualche tempo prima – quando Matthias segna 3 gol e fornisce tutti e 5 gli assist ai compagni per le altre reti. Nel 1938 nella capitale Austriaca si «festeggia la pacifica annessione» del Paese. Ovunque bandiere con la svastica a benedire l’Anschluss.
Il Prater è in festa per la partita dei “fratelli tedeschi”; è l’ultima partita della nazionale austriaca che dovrà regalare i suoi migliori giocatori alla nazionale tedesca in vista della coppa Rimet in Francia. Alla sua squadra di club viene imposto di cambiare il nome e il presidente, di origine ebraiche, viene allontanato con altri dirigenti e tecnici. Mattihas dichiara pubblicamente al suo vecchio presidente:«Il nuovo fuhrer dell’ Austria Vienna, ci ha proibito di salutarla, ma io vorrò sempre dirle buongiorno, signor Schwarz, ogni volta che avrò la fortuna di incontrarla».
Non si tira in ditro neanche quell”ultima partita, segna e fa vincere i suoi, ed esulta con un balletto evitando di salutare la tribuna dei gerarchi con il braccio teso. Rifiuta pure di giocare con la maglia della Germania mentre altri suoi compagni, anche ebrei, scelgono di giocarci, ma dopo la sconfitta negli ottavi del Mondiale francese con la Svizzera, anche questi scapperanno all’estero.
Gioca l’ultima partita con il club a Berlino contro l’Hertha, segna irrride i grandi capi tedeschi, gli nega nuovamnete il saluto e segna la sua condanna a morte.
Viene ritrovato morto il 23 gennaio 1939 con la sua compagana Camilla Castagnola, una ragazza italiana, un ebrea, con la quale conviveva; è stato suicidato con il monossido di carbonio. La polizia austiaca archivia rapidamente il suo caso, non viene eseguita neanche l’autopsia; dopo la guerra il fascicolo sulla vicenda risulta scomparso. Al suo funerale migliaia di viennesi consapevoli di aver perso un grande calciatore. Un campione. Un uomo che aveva detto no al nazismo.