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sabato 23 luglio 2011

Quando è inutile anche correre più veloce di tutti.

di Mauro Valeri
Che lo sport italiano sia ormai alla frutta non è più neanche una novità. L’ultimo scandalo, da un punto di vista soltanto temporale, riguarda la Federazione di atletica, la quale pochi giorni fa si è “semplicemente” dimenticata di inoltrare in tempo utile alla Federazione internazionale i documenti necessari per iscrivere il primatista italiano dei 110 ostacoli ai Campionati Europei Juniores (che si terranno a Tallin dal 21 al 24 luglio prossimo). Quel 13”76, ottenuto a Bressanone a metà giugno, era valso anche il titolo italiano della categoria.
Chi pratica sport o chi ne è un appassionato, sa bene che per un atleta questa dimenticanza rappresenta una ferita profonda, difficile da rimarginare, perché compromette mesi e mesi di allenamenti, di speranze passate ma anche future (e infatti, il ragazzo ha risposto no alla proposta riparatrice della Federazione italiana di far comunque parte della spedizione italiana). Anche perché agli Europei il campione italiano avrebbe avuto ottime possibilità di salire sul podio. Le scuse del presidente della Fidal, pur se dovute, non appaiono sufficienti, tanto che la società per la quale corre il ragazzo, cioè l’Atletica Bergamo 59, ha deciso di chiedere un rimborso per i danni morali e materiali per quanto accaduto.
Il punto è: di semplice dimenticanza si è trattato? I dubbi sono molti. Il ragazzo in questione è infatti Hassane Fofana, nato a Gravardo (Brescia) nell’aprile del 1992, da genitori d’origine ivoriana giunti in Italia nel ‘90. E’ quindi uno dei sempre più numerosi black italians, che qualcuno continua a non voler accettare. Nella interpretazione più benevola, quanto accaduto è da attribuire alla convinzione di qualcuno in Fidal che Fofana fosse ancora straniero. Tant’è che il documento non inviato è stato proprio quello dell’avvenuta cittadinanza, che Fofana ha ottenuto alla fine del 2010 e che l’Atletica Bergamo 59 ne aveva consegnato copia alla Federazione già a dicembre.
Non solo. Che Fofana è un italiano a tutti gli effetti, anche sportivi, lo sapevano tutti, visto che a marzo aveva indossato la sua prima maglia della Nazionale italiana. Fa così capolino un’interpretazione più malevola: a rendere Fofana “poco italiano” è il suo colore scuro della pelle e anche il suo nome e cognome. Insomma, il ragazzo bresciano sarebbe stato vittima di quegli stessi pregiudizi negativi che ancora oggi rendono difficile per un “nero italiano” di trovare un appartamento in affitto, un lavoro o di non essere vittima di bullismo. La Federazione di atletica si difende sostenendo che solo di grave distrazione si tratta e non di discriminazione, portando come prova il consistente numero di atleti black italians che gareggiano in numerose competizioni internazionali con la maglia azzurra. Certo è che tutto ciò non sarebbe accaduto se in Italia l’acquisizione della cittadinanza alla nascita fosse per diritto di suolo: in questo caso, essendo nato in Italia, Fofana sarebbe stato italiano sin da quando è venuto al mondo. Invece lo è diventato solo al compimento dei 18 anni. Il caso Fofana non è purtroppo un caso isolato nello sport.
Sono centinaia di migliaia i ragazzi e le ragazze che, pur essendo nati e nate in Italia, vedono la loro carriera sportiva impedita da norme che lo sport non ha alcuna intenzione di reinterpretare o rimuovere. Ancora una volta lo sport dimostra di essere assolutamente indietro rispetto alle trasformazioni a cui è andato incontro il nostro paese. Anzi. Ne rappresenta ormai una sorta di zavorra. La discriminazione in ambito sportivo è ormai un tema che dovrebbe essere affrontato con più coraggio, lasciando ad altri quell’atteggiamento spocchioso di chi ritiene lo sport professionistico una delle tante espressioni dell’ “oppio dei popoli”.

giovedì 14 luglio 2011

Volare alto per ricostruire lo sport dal basso




 Interrogatori. Ammissioni. Delazioni. Ricusazioni. Accuse. Smentite. Indignazione. Ecco la sintesi della giornata “calcistica” odierna. E le parole di Abete come sempre misurate. Secondo lui è il condizionale che uccide. Il si direbbe. E se vogliamo, avrebbe pure ragione, in una situazione normale. Perché il garantismo vale sempre, non può andare bene solo quando fa comodo.
Ma siccome la situazione non è normale, e il problema molto più vasto, può sì interessare sapere se questo o quel personaggio è implicato in loschi intrighi. Ma sicuri che è questa la sostanza?
Davvero ancora una volta si taglia il ramo per salvare l’albero?
E quindi, in controtendenza con quanto predica il Presidente della FIGC Giancarlo Abete, noi, nel nostro piccolo, vogliamo volare alto. Ma che dico alto. Altissimo.
Perché con un grosso dubbio ci eravamo lasciati, con l’immagine del monolite inattaccabile.
E mi rivolgo a tutti coloro che non solo amano il calcio, ma che vorrebbero cambiare le cose. Perché chi ci segue lo sa, parliamo di sport, ma pensiamo anche ad altro. Eccome se ci pensiamo.
Quindi, per cominciare, la class action, come proposto a Marghera sabato scorso in occasione dell’Alerta Cup/Torneo del Bae, contro la federazione per omesso controllo che ha consentito di generare partite e interi campionati a dire poco taroccati. E’ vero, si può obiettare che questo tipo di iniziative non hanno mai successo anche perché non portano a dei risarcimenti, ma davvero ci importa di essere risarciti? E’ questo il fine? Certo toccarli nel portafoglio non sarebbe male, ma ci si può accontentare di qualche pesante azione di disturbo, per cominciare.
L’obiettivo è mettere in difficoltà chi mal-governa lo sport. E lo fa da troppo tempo. E succede anche a livello internazionale. Pensate a Blatter, ad esempio. Ancora una volta è lui il padrone assoluto del calcio mondiale. Le elezioni alla FIFA sono state a dire poco una farsa. Lui unico candidato. Quando si dice che l’ineluttabile è la morte della democrazia..
Possibile che non ci sia modo per scalfirlo? Cominciamo dai nostri, e poi vediamo.
E per questo, poniamo questioni serie. Lo dico ai fruitori dello spettacolo football. A quelli che comprano i giornali sportivi, si abbonano alle Pay-tv o vanno allo stadio. Che hanno quindi un certo peso. Spesso inconsapevolmente.
E ce ne sono tantissime di questioni che si possono porre. Dalla tessera del tifoso, che si è rivelata per quello che è. Al fatto che curve metropolitane siano in mano o a gruppi neonazisti o alla malavita, che fa il bello e il cattivo tempo, quando invece certi tipi di controlli dovrebbero scongiurare certi problemi. Secondo qualcuno. Ma lo si sa, il proibizionismo cosa genera, dopotutto.
Che squadre di prima e seconda divisione (la vecchia serie C) siano in mano a clan camorristi è risaputo. Che si utilizzano i pullman delle squadre per trasportare chi lo sa che merci in giro per l’Italia. E’ successo anche questo. Che giocatori vengono corrotti, altri ricattati ed altri ancora minacciati. Lo stesso vale per gli arbitri. Che spesso gli stipendi non arrivano e bisogna arrangiarsi. E succede quello che sappiamo.
Questo perché ogni uno è abbandonato a se stesso. Le leghe, le società, gli atleti. Sono alla mercé di chiunque.
E ancora.
Negli stadi si può però gridare di tutto. Questo si può fare. Non c’è educazione in questo senso. Mi spiego: se allo stadio urlare ingiurie razziste è quasi visto come folcloristico, perché pensare che poi la stessa non verrà detta sull’autobus alla prima occasione. Se lo sport è cultura, che lo sia davvero. Cosa c’è di arricchente nell’umiliare l’altro? Possibile che non si riesca a dare un input differente? E invece troppo spesso si minimizza, si giustifica.
Sono i comportamenti che poi diventano così un tutt’uno con i costumi delle persone che genera e alimenta diffidenza e razzismo. E aggressività. Non mi pare poco.
Andare in controtendenza. Dare dei segnali diversi. Nuovi. Positivi.
Smettere di chiudere un occhio con i cattivi invece di punire con daspo e altri provvedimenti restrittivi che non trovano giustificazioni se non sperimentare nuove forme di controllo. Basti pensare alla proposta di estendere queste limitazioni anche in occasione di manifestazioni politiche.
Ci sono tantissime associazioni che si muovono attorno alle curve e gruppi Ultras che propongono, socialmente, iniziative a dire poco lodevoli. Culturali, di aggregazione, antirazziste. E che agiscono anche fuori dagli stadi. Ci sono poi le polisportive che in questi anni sono nate in diverse città italiane. E che oltre al proporre sport, lanciano segnali di tolleranza, di apertura totale anche alla sperimentazione. Come è successo nelle Marche con il cricket, ad esempio. Ma chi lo sa quanti esempi ci sono, in questo senso. A Roma tra campionati autogestiti e palestre autogestite, ce ne sarebbe dire. Perché non dare a queste realtà maggiore visibilità?
L’azionariato popolare è un’altra strada che si deve e si può intraprendere. Anche solo entrare nel consiglio di amministrazione di una società, come è successo ad esempio ad Ancona, è un risultato da non sottovalutare. E presto, ci auguriamo, possa accadere anche a Venezia. Potere dire la propria rispetto alle decisioni da prendere ha un valore inestimabile.
E’ facile obiettare che mettere in atto anche solo alcune di queste iniziative può sembrare proibitivo. E chi lo ha detto che non lo è? Ma le sfide che mirano ai cambiamenti non possono mai essere dei percorsi agevoli. Ma gli esempi fatti sono animati dalla voglia delle persone. Se questa voglia si moltiplica e si trasforma, diventa consapevolezza, e la faccenda potrebbe essere interessante.
Immaginiamoci infine stadi disertati, abbonamenti non rinnovati, anche alle pay tv. E altre forme di boicottaggio che sono ancora altre alternative per dare una scossa. Lo sport è un’azienda? E allora noi faremo i clienti. Lucidamente inferociti.
Perché non provare. In fondo si vuole solo cambiare il governo dello sport e il modo in cui questo si vuole gestire.
Per ricostruire lo sport dal basso, occorre volare alto. Non è la rivoluzione. O forse si.
di Ivan Grozny